Ma il suo è un lavoro che molti vorrebbero fare; la redattrice di un programma televisivo di enorme ascolto. Uno di quei programmi emblema della così detta tv del dolore, quella in cui le persone vengono triturate dallo share e dalla morbosità altrui in cambio di dieci minuti di visibiltà. Emma è una di quelle persone che, per lavoro, devono trovarle queste storie, devono convincere le persone che il tocco salvifico del tubo catodico le aiuterà a risolvere tutte le tragedie e i dolori. E ha solo tre mesi di tempo per trovare La storia, quella che farà scendere dagli occhi di milioni di persone fiumi di lacrime che, come colla, le terranno inchiodate allo schermo: un po’ credendo di condividere il dolore altrui e un po’, sotto sotto, godendo del fatto che quel dolore appartenga a qualcun altro. Per Emma i mesi passano e la vita scorre tra amicizie, amori, sogni e progetti. Ma tutto sembra dipendere dal conto alla rovescia della scadenza del suo contratto e dalla storia che la salverà dalla disoccupazione: cosa riuscirà a trovare Emma, quale storia darà in pasto alla bocca tritatutto della compassione usa e getta dei riflettori?
Sara Lorenzini quel lavoro lo ha fatto sul serio e il dietro le quinte della televisione lo conosce bene; e ce lo racconta con quella leggerezza precisa con cui, spesso, i romanzi riescono a spiegare meglio di un saggio i meccanismi di un ambiente lavorativo. Cosa si è disposti a fare per mantenere un posto di lavoro? Fino a che punto si può ridere e scherzare sui problemi delle migliaia di ipnotizzati dalla tv che alla tv si rivolgono nella rappresentazione di una seduta collettiva di psicoanalisi? E il ricatto di un contratto che sta per scadere a quali compromessi può indurre? Tra dubbi, crisi di coscienza e pressioni lavorative Sara Lorenzini ci racconta di una forma di precariato che può anche diventare un’occasione per guardarsi dentro e cambiare. E lo fa con un libro davvero gradevole e spiritoso che dietro i toni leggeri del romanzo qualche domanda ci costringe a porcela. Una su tutte: davvero la realtà ha bisogno della finzione per raccontarsi meglio? Ne parliamo con l’autrice.
Pur non essendo autobiografico tu racconti un mondo che conosci molto bene; tu stessa hai lavorato in una trasmissione che ricorda un po’ quella di cui scrivi: ma le persone che si rivolgevano a voi erano davvero convinte che la tv fosse un mezzo per risolvere i loro problemi?
Sì, quelle che si rivolgevano direttamente a noi avevano una fiducia totale nel mezzo, nel programma e nella conduzione. Ne subivano il fascino e gli attribuivano valore. Alcuni speravano sul serio di risolvere i loro problemi e qualche volta ci riuscivano anche, grazie alla collaborazione degli esperti presenti in puntata o alla visibilità ottenuta. Molti altri però erano mossi semplicemente dalla voglia di raccontarsi, appagati all’idea di mettere in scena la propria vita, motivati dalla funzione catartica della partecipazione televisiva più che dalla speranza di un aiuto pratico. Altri ancora, invece, non ci chiamavano proprio: eravamo noi redattori a scovarli a partire da storie di cronaca interessanti e a convincerli a partecipare. Una vera sfida!
Come ti ponevi tu davanti a certe storie? Avevi mai dubbi o problemi di coscienza tipo quelli che attribuisci al personaggio di Bice?
Lavorare da giovanissima in una redazione in cui si cercavano storie vere, spesso drammatiche, da portare in diretta tv, proprio come fa Emma la protagonista del mio romanzo, è stata una palestra sì lavorativa ma soprattutto umana. Non è stato facile imparare a gestire il dolore altrui, spesso è disarmante, può essere straziante. Ho avuto la fortuna di lavorare in una redazione in cui la dimensione etica era molto sentita e rispettata. È vero che la televisione segue le regole dello spettacolo, ma è altrettanto vero che è fatta da persone. E i professionisti seri alla coscienza danno ascolto. Quelli poco seri (non semiseri, per carità, che invece sono simpatici come Emma…) invece no. E purtroppo sono in molti.
Che cos’è, secondo te, il pudore, nell’epoca della tv del dolore?
Direi che nella più becera televisione del dolore non si possa proprio parlare del concetto di “pudore”. C’è la spettacolarizzazione dei sentimenti, consapevole, esibita, bramata da coloro che si spogliano sulla piazza mediatica, pur tenendosi i vestiti addosso. C’è tutta l’intenzione di strapparglieli di dosso quegli abiti ai personaggi che si muovono sul palco. Il privato diventa pubblico tanto per nercisismo quanto per voyerismo. E la tv ancora una volta si conferma specchio deformato della realtà, oggi che di pudore non c’è più traccia nella società politica, che tutto diventa spettacolo, oggi che paradossalmente ci si vergogna proprio a parlare di pudore, a mostrarlo, perchè si leggittimano e si rappresentano come vincenti i più squallidi personaggi e comportamenti.
A Emma, ad un certo punto fai dire che la realtà ha bisogno della finzione per esprimersi meglio. Cosa intendi dire?
Intendo dire che la realtà per essere raccontata si deve piegare alle regole della finzione, specialmente in televisione. Va strutturata, costruita, accompagnata. E così si perde e si ritrova allo stesso tempo. In tutto il romanzo realtà e finzione si mischiano, è un gioco di incastri, tanto nella vita professionale di Emma (cercare storie vere da portare in televisione, sembra quasi un ossimoro: televisione e verità) tanto nella vita privata (verità e bugie, certezze e segreti, scoperte e delusioni… Emma, il suo fidanzato sbagliato, l’Astronauta: nessuno è quello che sembra).
Per molti è vero solo ciò che appare in tv. Che responsabilità hanno, dal punto di vista etico e non solo di share, gli autori televisivi?
Altissimo, sia produttori che autori. È così facile manipolare la realtà… Fanno più politica, per esempio, programmi di intrattenimento che offrono rappresentazioni e punti di vista parziali rivolgendosi a un pubblico di massa, che i talk show politici seguiti da un audience diversa, spesso già orientata.
Cosa ti piace di più, in assoluto, del lavoro redazionale in tv?
L’imprevedibilità. Nessun giorno è uguale all’altro. Ne succedono di tutti i colori!
Come altri mestieri, visto da fuori alimenta tutta una serie di sogni e mitologie: ma quello della televisione è un lavoro duro. Quale l’aspetto più complesso e pesante?
Il precariato, che poi è il motivo che mi ha spinto ad ambientare il romanzo nella redazione di un talk show. Lavorare in tv dà un forte status sociale, la gente però non sa che si è precari per definizione. I contratti durano quanto un programma e difficilmente un programma supera i sei mesi. Può essere chiuso da un momento all’altro, tutto dipende dall’audience. Non si hanno garanzie, certezze. E gli stipendi, se si lavora dietro le quinte, non sono affatto così alti come si pensa. Stare dietro alle telecamere è cosa ben diversa che apparire in video. Ci vuole passione, tenacia e anche fortuna per resistere.
Quello che arriva davanti alle telecamere è solo la punta dell’iceberg di un lungo lavoro. Come sono i ritmi lavorativi in tv?
Ovviamente dipende dal programma, di sicuro però sono stressanti. Spesso si lavora più di otto ore al giorno e quasi mai in orari canonici. Capita che si registri di sera, la domenica, nei festivi, che si vada in diretta la mattina all’alba o la sera fino a tardi, che si resti al montaggio anche tutta la notte se serve…. È un lavoro che richiede molta disponibilità, quasi abnegazione.
Come si fa a far bene e con cura un lavoro che, magari, non si condivide o di cui non si condividono i metodi e le finalità?
Questa è una domanda che vale per ogni categoria… non credo che tutti adorino il lavoro che fanno, ma come si dice? se lo fanno piacere, mentre nella migliore delle ipotesi conservano l’entusiasmo di cercare altro. Tornando al mio romanzo e al lavoro in tv, è vero possono capitare programmi terribili come a Emma “A cuore aperto”, ma lei si sente fortunata e privilegiata. La tv l’ha studiata sui libri e ora la può sperimentare. Poi trova un sano cinismo che la salva e alla fine si diverte pure. La stressa il precariato, come a tutti noi, ma non è così ingrata alla vita di disprezzare il suo lavoro nè lo stipendio che arriva puntuale a fine mese, ormai un lusso per molti.
Per molti la tv sembra diventata una gigantesca seduta psicoanalitica: ma perché, secondo te, la tv ha un potere così ipnotico e spesso invasivo?
La tv esercita questo potere su chi ha un irrazionale bisogno d’affermare la propria esistenza, su chi s’è perso in un vuoto cosmico generale, probabilmente derivato dalla tv stessa, causa ed effetto, e vuole apparire, apparire a tutti i costi. Nella società dell’immagine la rappresentazione di sè diventa più importante del sè reale. Facebook, se ci pensi, non è che un’evoluzione di questo meccanismo. Lo dice anche Emma: sono diminuite le presenze ai casting dei reality da quando ognuno può creare il suo show in rete. Sarebbe interessante scoprire se ha ragione, io ci scommetterei…
Che cos’è per te una tv fatta bene?
Salvo rare eccezioni (una su tutte Presa Diretta di Riccardo Iacona), quella che si fa sempre meno… Scherzo: per me è la tv che informa grazie a una pluralità di voci, ma anche quella che diverte, che segue i gusti del pubblico e li anticipa, quella che racconta storie che ci riguardano, sia talk che docufiction, che dà voce alla gente e non si limita a mostrarci modelli e personaggi poco attinenti alla realtà, che parlano a se stessi e non alla gente, dando una visione distorta di ciò che ci riguarda, nè tanto meno la tv che trasforma la cronaca in fiction, che la serializza e cerca lo scoop a costo di inventarlo.
Secondo te la tv generalista informa, disinforma, intrattiene o cos’altro?
Tutte e tre le cose insieme, la prima in minima parte ormai. La verità è che io ormai la considero un eletrodomestico come la lavatrice, il bollitore, il frigorifero. Mi informo prevalentemente su internet, faccio zapping per rilassarmi senza prestare molta attenzione, guardo pochi programmi e cerco di farlo con spirito critico.
Dal punto di vista esclusivamente tecnico, qual è la trasmissione più simile a quella di cui scrivi che consideri fatta meglio? E perché?
Non saprei… “A cuore aperto” è davvero terribile! Però è vero che la realtà supera la fantasia…
Hai un sogno professionale? Quale trasmissione ti piacerebbe fare più di ogni altra cosa?
Sanremo! C’è chi lo ama e chi lo odia. Io lo adoro, a prescindere dalle canzoni. È una festa, kitch al punto giusto. Deve essere divertente. Ma solo se lo conduce Pippo Baudo, però! Se no, non vale…
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A cura di Geraldine Meyer